Non è possibile contestare l’abuso del diritto all’immobiliare che restituisce la caparra ai promissari acquirenti a seguito della risoluzione del contratto preliminare di compravendita. Il costo è deducibile perché inerente all’attività imprenditoriale.
Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 19340 del 17 settembre 2020, ha accolto il ricorso del socio di una società estinta.
La vicenda riguarda una immobiliare che aveva per ben due volte stipulato il preliminare di vendita e poi risolto consensualmente il contratto deducendo il costo della restituzione della caparra. Secondo l’Agenzia delle entrate erano insussistenti le ragioni economiche alla base della risoluzione, anche in virtù della relazione di parentela esistente tra i soggetti coinvolti nelle operazioni di compravendita.
Col proprio ricorso in Cassazione il contribuente denunciava, tra l’altro, violazione dell’art. 37-bis del dpr 600/1973 ritenendo illegittimo il recupero della caparra per mancanza di inerenza in quanto la risoluzione di un contratto preliminare è operazione fisiologica che non rientra tra quelle elusive.
Nell’accogliere il ricorso la Cassazione ricorda che la disciplina antielusiva dettata dall'art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973 ratione temporis applicabile, la quale costituisce espressione del principio generale del divieto di abuso del diritto, prevede una tipizzazione delle singole fattispecie negoziali elusive, sicché può configurarsi un abuso del diritto solo qualora ricorra una delle operazioni ivi indicate dal terzo comma dell'art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973, le cui disposizioni limitano l'ambito applicativo dei due precedenti commi, relativi al principio di inopponibilità all'amministrazione finanziaria degli atti elusivi (cfr. Cass. 27886/2018).
Tra tali atti non rientra lo scioglimento del contratto per mutuo dissenso ex art. 1372, comma 1, cod. civ.