Dopo la riforma del 2015, il profilo distintivo tra le fattispecie di cui agli art, 2 e 3 è rimasto quello non dell'operazione compiuta, ma del modo in cui e documentata, rilevando dunque la natura dello strumento usato per commettere la dichiarazione fraudolenta, dovendosi cioè circoscrivere l'ambito applicativo dell'art. 2 alle ipotesi in cui la frode fiscale venga attuata mediante l'utilizzo di una fattura o altro documento avente "rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie”, essendo indifferente in tal senso che la falsificazione sia di tipo ideologico o materiale. Il disvalore della condotta si incentrata infatti proprio nell'utilizzo, a supporto della dichiarazione fraudolenta di elementi passivi fittizi, di quella particolare documentazione contabile che corrisponda, sia pure apparentemente, ai requisiti precisati dall'art. 21 comma 2 del d.P.R. n. 633 del 1972, stante l'idoneità di tale strumento a trarre più facilmente in inganno l'amministrazione finanziaria.
Di conseguenza la fattura autoprodotta ovvero fatta in casa configura comunque il più grave reato di cui all’art. 2 del d.lgs. 74/2000 e non l’ipotesi più lieve prevista dal successivo articolo 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici).
Lo ha stabilito la Cassazione con sentenza 6360 dell’11 febbraio con cui ha confermato la condanna nei confronti del legale rappresentante di una srl che aveva indicato in dichiarazione elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti autoprodotte.